La solitudine: un continuum tra il senso di appartenenza ed il sentirsi soli

La solitudine: un continuum tra il senso di appartenenza ed il sentirsi soli

La solitudine è una condizione universalmente riconosciuta ed esperita da molte persone.

Gli studiosi ed i ricercatori che si sono occupati di questo fenomeno sono concordi su tre punti fondamentali:

  • risulta da una carenza percepita di relazioni sociali
  • è un’esperienza soggettiva
  • è vissuta come spiacevole e causa distress personale

Approfondiamo queste caratteristiche

La solitudine è un’esperienza individuale indesiderata che nasce dalla carenza o dall’assenza di relazioni soddisfacenti su di un piano sia quantitativo che qualitativo.

Si tratta di situazioni in cui il numero delle relazioni è minore rispetto a quello voluto o di situazioni in cui l’intimità ricercata non viene realizzata. La solitudine è, dunque, un’esperienza prima di tutto soggettiva derivante dall’esito di una valutazione, quantitativa e qualitativa, che mette a confronto le relazioni esistenti con quelle desiderate.

Essa, inoltre, non è direttamente collegata ad un oggettivo isolamento sociale, anzi non va proprio intesa come sinonimo di isolamento. La solitudine, infatti, è solo una delle possibili conseguenze di una rete sociale povera o inesistente: persone socialmente isolate non sono necessariamente sole, e persone sole non sono necessariamente isolate.

Allo stesso tempo un individuo, che obiettivamente ha una buona rete sociale, può occupare una qualsiasi posizione di un continuum che va dal sentirsi ben inserito al sentirsi solo. Questo significa che il senso di solitudine è strettamente associato a valutazioni che includono standards del tutto personali in base ai quali giudicare la propria vita sociale come ottimale. Anche le azioni che una persona dovrebbe attuare per ristabilire l’equilibrio tra una situazione presente ed una situazione ideale contribuiscono al fenomeno: tanto più una persona prevede attività che eccedono le proprie capacità di risoluzione e tanto più la sua prospettiva temporale di cambiamento è ampia, maggiore è il senso di solitudine.

Va detto, tuttavia, che la solitudine non è un qualcosa di esclusivamente negativo. E’ possibile riconoscere una solitudine positiva.

La solitudine positiva fa riferimento a quella condizione di ritiro volontario dai problemi quotidiani della vita ed è orientata verso obiettivi più alti come la riflessione, la meditazione, la comunicazione con qualche divinità. La solitudine positiva è quella che oggi si avvicina alla cosiddetta “privacy”: è volontaria e corrisponde ad una situazione liberamente scelta di assenza temporanea di contatti con altre persone.

Di contro, la solitudine negativa è la carenza/assenza di relazioni o contatti con gli altri che il soggetto vive con senso di sgradevolezza e di inaccettabilità.

La tonalità emotiva della solitudine non è, quindi, univoca, ma ci sono aspetti peculiari che consentono di differenziare tra una solitudine positiva ed una solitudine negativa.

E’ possibile, inoltre, distinguere tra solitudine emotiva, che deriva dall’assenza di una figura intima o di un legame emotivo importante (come un miglior amico, un partner), e solitudine sociale derivante dall’assenza di un largo gruppo di contatti o di una rete sociale (amici, colleghi, ecc.) con cui condividere i propri valori ed interessi.

La solitudine emotiva si amplifica quando la relazione termina dopo un lutto o un divorzio ed è caratterizzata da forti vissuti di vuoto, abbandono e desolazione. Questo tipo di solitudine potrebbe risolversi solo iniziando una nuova relazione intima, mentre il supporto sociale dato dalla famiglia e dagli amici non è così tanto efficace nel compensare la mancanza della figura significativa.

Secondo alcuni autori, la solitudine, intesa come solitudine percepita e quindi con un’accezione negativa, si associa ad un senso generale di insicurezza che attiva, a livello implicito, un’ipervigilanza nei confronti di stimoli di minaccia sociale presenti nell’ambiente. L’attenzione implicita verso questi segnali produce a sua volta dei bias cognitivi: attenzione focalizzata per le persone che non sembrano sole, interpretazione del mondo sociale come ostile, maggiore memoria di informazioni ed esperienze spiacevoli.

Le aspettative sociali negative, inoltre, elicitano da parte delle altre persone comportamenti che finiscono per confermare le aspettative della persona sola: se il mondo sociale e gli altri sono percepiti come minacciosi e rifiutanti, la persona sola attiva dei pattern comportamentali che favoriscono la distanza degli altri, una distanza che però viene attribuita alle loro intenzioni e percepita come fuori dal proprio controllo. Questo loop auto-rinforzante viene accompagnato da ostilità, pessimismo, ansia, bassa autostima e rappresenta una disposizione ad attivare meccanismi neurobiologici e comportamentali che contribuiscono ad esiti nocivi per la salute.

Numerose ricerche longitudinali hanno evidenziato che la solitudine predice un incremento di mortalità e di comorbilità.

Su di un piano prettamente fisico, essa accelera i processi fisiologici dell’invecchiamento; aumenta i rischi di malattie cardiovascolari (in particolare l’indice di massa corporea ed ipertensione sistolica); aumenta la mortalità indipendentemente da fattori quali età, sesso, fumo, alcohol, malattie e limitazioni fisiche; altera il sistema immunitario e neuroendocrino.

Contemporaneamente aumenta il rischio di condotte d’abuso di alcohol, fumo e sostanze psicotrope.

Da un punto di vista psicologico, la solitudine è stata associata a disturbi di personalità e psicosi, suicidio, aumento del rischio di deterioramento cognitivo, sintomi depressivi. La relazione tra solitudine e sintomi depressivi appare reciproca, tuttavia le ricerche hanno mostrato che se la solitudine, a distanza di anni, favorisce la comparsa di sintomi depressivi, i sintomi depressivi stessi non predicono invece la solitudine. Anche ricerche sperimentali, in cui la solitudine percepita era indotta con tecniche ipnotiche, indicano che essa provoca un aumento del distress generale e di emozioni negative.

Una delle conseguenze più importanti della solitudine è la ridotta capacità di auto-regolazione. Questa capacità consiste nel saper regolare i nostri stati mentali ovvero le emozioni, i pensieri, le intenzioni, i comportamenti con cui stabiliamo e raggiungiamo scopi personali, condividiamo le norme sociali, ci adattiamo funzionalmente al contesto. La riduzione di una capacità così importante non consente di ottimizzare e mantenere le emozioni positive, ostacola l’attivazione di comportamenti finalizzati alla ricerca di piacere e gratificazione, favorisce la sedentarietà e la passività con ulteriori ricadute sulla salute.

Dunque, le conseguenze della solitudine non andrebbero sottovalutate. L’essere umano nasce, si costruisce e si realizza per mezzo dei legami sociali, si adatta efficacemente all’ambiente mediante il confronto e la condivisione con gli altri. D’altronde la storia evolutiva dimostra come la creazione di gruppi sociali, che siano essi clan, piccole associazioni o grandi corporazioni, ha permesso la sopravvivenza, lo sviluppo ed il potenziamento della specie umana.

Ristabilire un senso di connessione e di adesione sociale, il che non significa costruire un gruppo esteso di contatti, ma fare in modo di sentirsi appartenenti e di non sentirsi soli anche quando le relazioni sono oggettivamente poche, contrasta i meccanismi di compromissione neuro-biologica e psico-affettiva, promuovendo un effetto benefico sulla qualità di vita di ogni essere umano.

Se ci sentiamo soli, nonostante tutto, rimettiamoci in gioco. E’ possibile.

Dott. Spinelli

Riferimenti:

– Hawkley LC., Cacioppo JT. (2010). Loneliness Matters: A Theoretical and Empirical Review of Consequences and Mechanisms. Annals of Behavioral Medicine, 40, 218-227.

– Cacioppo JT., Hawkley LC., Crawford LE. et al. (2002). Loneliness and health: Potential mechanisms. Psychosom Medicine, 64, 407-417.

– Gierveld J. (1998). A review of loneliness: concept and definitions, determinants and consequences. Reviews in Clinical Gerontology, 8, 73-80.

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