Suicidio: cause, trattamento e prevenzione
29 Dicembre 2021
Secondo un recente rapporto mondiale dell’OMS, il suicidio rappresenta una delle principali cause di morte nel mondo, causando più decessi rispetto a malattie quali l’HIV, malaria, cancro al seno ed anche rispetto a guerre ed omicidi.
Nel 2019 sono stati registrati più di 700.000 decessi per suicidio nel mondo, mentre in Italia se ne contano circa 4000 ogni anno. Questa drammatica realtà ha spinto l’OMS a prestare una particolare attenzione ad una situazione allarmante affinché si intensifichino gli sforzi per attuare piani più efficaci di prevenzione e cura.
Intervenire sul suicidio è una battaglia difficile da cui nessun paese è immune per la natura complessa e soprattutto multifattoriale del fenomeno.
Partiamo col dire che l’ideazione suicidaria è la presenza di pensieri riguardanti il suicidio. Questi vanno dal passivo (ad es. “meglio morire”), alla considerazione di un metodo di suicidio specifico, sino allo sviluppo di un intento suicidario vero e proprio con la formulazione di piani di azione suicidaria.
L’ideazione suicidaria, inoltre, può essere transitoria o cronica, con alcuni individui che sperimentano un’ideazione suicidaria passiva per anni senza attuare alcun tentativo concreto.
Questa condizione può comportare una sottostima del rischio di suicidio perché, sovente, sia la letteratura psichiatrica che i servizi di intervento sono chiamati in causa nei casi di “crisi suicidaria attiva”, ovvero in quelle situazioni di tentato suicidio attivo, senza cogliere le sfaccettature di una ideazione passiva che pervade una persona.
Le molteplici cause del suicidio
L’eziologia del suicidio è complessa e multifattoriale, per cui sarebbe sbagliato limitarsi ad una lettura univoca che non consenta di comprendere adeguatamente la problematica e di pianificare delle strategie di intervento efficaci.
In questa sede verranno accennati i diversi fattori che concorrono al suicidio, ma ci si soffermerà di più sulle cause cosiddette psicologiche, presentando alcune teorie sulle quali sono state anche effettuate delle ricerche scientifiche.
Cause non psicologiche
Tra le cause non psicologiche vi sono sicuramente quelle socio-culturali, il cui ruolo è stato approfondito da una delle analisi più famose in merito condotta da Emile Durkheim, seppur ormai datata.
Infatti, sebbene i suicidi si verifichino certamente per le ragioni da lui studiate, il modello non è riuscito a prevedere le tendenze delle morti per suicidio osservate nei tempi moderni e potrebbe anche non catturare adeguatamente i contributi della malattia mentale.
Secondo l’autore, il suicidio è determinato da 4 fattori concernenti l’integrazione comunitaria, il sacrificio, la confusione morale e la disperazione.
Sulla base di essi, Durkheim ha costruito una tassonomia del suicidio, descrivendone alcune tipologie.
Il suicidio altruistico: la persona commette suicidio come forma di sacrificio per il bene della società al fine di difendere quei principi etici che caratterizzato il suo gruppo di appartenenza. Si tratterebbe, dunque, di un’azione positiva dal punto di vista sociale.
Questa tipologia di suicidio, però, è più comune nelle società passate e primitive piuttosto che in quelle moderne: si pensi agli schiavi o ai soldati che si toglievano la vita per accompagnare il loro re nella tomba.
Seppur raramente, ancora oggi alcune culture appoggiano il suicidio degli anziani perché individui non più utili alla società e, quindi, pronti a guadagnare l’onore divino.
Il suicidio egoistico: il suicidio è provocato dalla competizione sociale che può determinare nella persona dei vissuti di esclusione e di mancata integrazione sociale. Poiché l’individuo non riesce ad affermarsi in quanto incapace di raggiungere gli standard e i parametri di realizzazione della società di appartenenza, vive una profonda frustrazione che lo indurrebbe al suicidio.
Il suicidio anomico: avviene quando la persona è poco integrata nella società e non riesce a condividerne le sue regole. Le sue passioni e desideri sono percepiti come repressi e soffocati da norme sociali di riferimento considerate troppo autoritarie al punto da sentirsi una persona inquieta e vuota internamente.
All’interno delle cause socio-culturali vi è anche l’appartenenza a gruppi di minoranza che subiscono generalmente forme di discriminazione.
Ne sono un esempio le comunità gay ed lgbt soggette facilmente ad ostilità ed emarginazioni, così come le comunità indigene. Le statistiche dimostrano che in questi gruppi sociali i tassi di suicidio sono più alti che in altri.
Inoltre, anche fattori geopolitici contribuiscono ad aumentare le probabilità di suicidio: le crisi finanziarie, le pratiche di lavoro poco etiche, le misure di austerità economiche che variano da paese a paese concorrono ad aumentare i tassi di suicidio.
Cause psicologiche
- Teorie interpersonale
La teoria interpersonale del suicidio assume che ci siano tre variabili che determinano l’atto suicidario.
La prima è la percezione di non appartenenza.
Quando un bisogno fondamentale come quello di appartenenza ad una realtà sociale o familiare non è soddisfatto, emergono vissuti di solitudine, isolamento, assenza di sostegno e affetto da parte degli altri.
La seconda variabile si riferisce alla percezione di essere un peso per gli altri, siano essi familiari o amici.
Questi due elementi, quando contemporaneamente presenti, danno origine al desiderio suicidario attivo caratterizzato da una pianificazione della condotta suicidaria.
Se invece presenti singolarmente, è presente un desiderio suicidario passivo che si esprime con idee quali “non valgo più nulla”, “tanto vale togliersi la vita”, “ a che serve andare avanti” e così via.
Le due variabili non sono sufficienti a generare un vero e proprio tentativo di suicidio, perché entra in gioco l’innata paura della morte e del dolore che lo contrasterebbero.
La teoria, allora, prevede un terzo costrutto, ovvero la capacità di suicidarsi.
Essa dipende dall’esposizione ad eventi dolorosi e provocatori che porta una persona ad abituarsi gradualmente alla paura del dolore e della morte.
Ovvero, man mano che la persona vive sempre più esperienze dolorose, violente ed autolesionistiche, essa si desensibilizza alla paura, alla sofferenza e cresce la capacità di suicidarsi.
Esempi di come una persona possa desensibilizzarsi sono piccoli atti autolesionistici che preparano la strada ad azioni sempre più letali, oppure esporsi sempre più costantemente a stimoli che fanno riferimento a violenza, morte e sofferenza.
- Teoria motivazionale-volitiva
Secondo il modello integrato motivazionale-volitivo (IVM), il suicidio è il completamento di due fasi.
La prima fase è quella detta “motivazionale”, durante la quale diverse circostanze possono generare sentimenti di sconfitta e umiliazione che, se associati ad una bassa capacità di problem solving ed a scarse capacità nel saper affrontare le difficoltà della vita, favoriscono un vissuto di intrappolamento.
Questo vissuto, quando accompagnato da pensieri negativi, scarso senso di appartenenza e sensazione di essere un peso, può spingere la persona a considerare il suicidio come l’unica soluzione possibile.
La seconda fase è quella “volitiva”, ovvero la fase in cui si mette in atto l’intenzione suicidaria.
Secondo il modello IVM, affinché tuttavia si verifichi un vero e proprio comportamento suicidario, devono essere presenti altri fattori quali l’impulsività e l’aver accesso a mezzi o circostanze letali.
Rispetto al modello interpersonale, quello IVM considera importanti, più che la percezione di essere un peso e il vissuto di non appartenenza, il sentimento di intrappolamento e sconfitta, insieme a tratti quali l’impulsività e la possibilità di essere a contatto con circostanze pericolose (armi, sostanze tossiche, balconi e ponti per fare alcuni esempi).
- Teoria 3ST
Questa teoria prevede tre step nel raggiungimento della condotta suicidaria.
Il primo passaggio è quello in cui si combinano il dolore psicologico e il senso di disperazione che promuovono l’ideazione suicidaria.
Il dolore psicologico può avere diverse forme ed essere determinato da esperienze disparate.
Quando si vivono ripetute esperienze dolorose, la vita può essere percepita come miserabile, avversa ed il desiderio di vivere decresce.
Tuttavia, il dolore non è sufficiente. Infatti una persona, anche se esposta a vissuti stressanti, può continuare a sperare che la sofferenza si riduca o che si abbiano ancora strumenti validi per superarla.
Risulta, allora, importante una seconda variabile, la disperazione: quando di fronte a continue esperienze dolorose emerge anche la perdita di speranza, si genera più facilmente l’ideazione suicidaria.
Il secondo passaggio di questo modello teorico prevede che il dolore psicologico superi il sentimento di connessione sociale e familiare.
Una persona può essere in uno stato di sofferenza psicologica importante, però il suo senso di appartenenza e connessione con gli altri (siano essi familiari, amici, colleghi) può continuare a rendere la sua vita degna di essere vissuta.
Tuttavia, quando il dolore supera anche questo senso di connessione, l’ideazione suicidaria passa da essere passiva (“mi chiedo se non sia meglio essere morto”) ad attiva (“mi ucciderei se potessi”).
Il terzo passaggio è quello in cui la persona ha l’effettiva capacità di tentare un suicidio.
Secondo questo modello le variabili che contribuiscono ad alimentare questa capacità sono un’alta soglia del dolore o una bassa paura della morte; l’accesso a e conoscenza di mezzi e circostanze letali (ad esempio fare ricerche su internet); la graduale abituazione emotiva ad eventi dolorosi o che riguardano la morte che riduce la sensibilità a questi temi.
- Teoria della vulnerabilità fluida
La teoria della vulnerabilità fluida si sovrappone alle tre teorie precedenti, dando infatti importanza al ruolo ricoperto da certe credenze suicidarie quali il sentirsi un peso per gli altri, il vissuto di non appartenenza e di intrappolamento, il senso di disperazione e la visione negativa generalizzata della vita.
Tuttavia, questa teoria suggerisce che il sistema di credenze suicidarie rifletta la manifestazione di due meccanismi sottostanti la vulnerabilità al comportamento suicidario: l’inflessibilità cognitiva e il deficit di regolazione delle emozioni. Sono questi due elementi che facilitano il passaggio dal pensiero suicidario all’azione suicidaria.
La teoria, dunque, pone l’attenzione non soltanto ai contenuti del pensiero, ma anche ai processi cognitivo-emotivi, ovvero alla capacità di mantenere un stile di pensiero flessibile e alla capacità di modulare adeguatamente i propri vissuti emotivi. Quando queste sono deficitarie o si riducono, aumenta il rischio di tentato suicidio.
Trattamento e prevenzione
Attualmente, non esistono marcatori biologici convalidati e sono pochi i marcatori demografici o comportamentali che predicono il suicidio con elevata specificità e sensibilità.
In questo contesto, il più potente predittore di futuri comportamenti suicidi rimane il comportamento suicidario passato. Se una persona ha già fatto un tentativo di suicidio, esso rappresenta il fattore più significativo che può predire una futura azione suicidaria.
Data la natura multifattoriale del fenomeno, il trattamento e la prevenzione del suicidio dovrebbero tener conto del ruolo ricoperto dalle diverse variabili che vanno da un piano più individuale ad uno più comunitario, da uno più medicalizzato ad uno più socio-ambientale ed istituzionale.
Gli studi condotti sul peso di queste variabili, seppure non tutti convincenti, suggeriscono che le strategie di intervento dovrebbero riguardare:
– la riduzione di accesso a sostanze tossiche e droghe, a siti pericolosi (si pensi ai ponti), alle armi;
– attuazione di specifici programmi di prevenzione nelle scuole;
– interventi strutturali sul piano legislativo (ad esempio nell’ex Unione Sovietica, una campagna anti-alcol avviata tra il 1985 e il 1988 ha ridotto in modo sorprendente il numero di morti suicidi; dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, i tassi hanno ricominciato ad aumentare bruscamente);
– trattamento adeguato dei disturbi psichiatrici sia con farmaci che con psicoterapia.
Su quest’ultima sono stati condotti studi di efficacia che sostengono la validità della terapia cognitivo comportamentale e della terapia comportamentale dialettica. Inoltre, possono essere considerate strategie di prevenzione sia secondarie che terziarie, progettate per prevenire sia la ricaduta che la ricorrenza di ideazione o comportamento suicidario.
Al di là di quanto scritto finora, rimane fondamentale risolvere il problema di accesso alle cure.
Se il numero di personale e di centri rimane inadeguato rispetto alla densità di popolazione, molte persone continueranno a rimanere escluse da ogni forma di trattamento.
Così come la scarsità di risorse finanziarie lascia un’ampia parte della popolazione al di fuori di servizi sanitari e di comunità.
Per ultimo, e non meno importante, sarebbe necessario garantire un’assistenza continuativa di tipo comunitario in quanto il solo accesso al pronto soccorso può da un lato prevenire la morte per suicidio, ma dall’altro non protegge dal rischio di tentati suicidi futuri. Infatti, le settimane successive alla dimissione dal ricovero psichiatrico sono il periodo di maggior rischio di suicidio.
Se ti senti molto male, hai pensieri suicidari, pensi spesso a come poterlo fare, non aver paura a chiedere aiuto.
Un’altra soluzione è sempre possibile!
Dott. Spinelli
Riferimenti:
– Klonsky E., Saffer B., Bryan C. (2018). Ideation-to-action theories of suicide: a conceptual and empirical update. Curr Opin Psychol., 22:38–43.
– Zalsman G., Hawton K., Wasserman D., Van Heeringen K., Arensman E., Sarchiapone M., et al. (2016). Suicide prevention strategies revisited: 10-year systematic review. Lancet Psychiatry, 3:646–59.
– Barbagli M. (2015). Farewell to the world: a history of suicide. Cambridge: Polity Press.
– World Health Organization (2015). Mental health atlas. Geneva: World Health Organization.