Compulsioni nel DOC: perché non si fermano?
24 Novembre 2020
Come ormai è ben risaputo il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) è caratterizzato dalla presenza di ossessioni e di compulsioni.
I pensieri ossessivi sono pensieri intrusivi ricorrenti e persistenti, immagini o impulsi che vengono vissuti come segnali di danno, di pericolo o di minaccia di fronte ai quali una persona si sente responsabile della loro neutralizzazione o prevenzione. Questo genera sofferenza, per cui le compulsioni si attivano per alleviarla.
Le compulsioni sono comportamenti (o anche atti mentali) rigidi e ripetuti messi in atto per contrastare le ossessioni.
Una volta che le compulsioni vengono avviate, esse diventano nel tempo sempre più difficili da interrompere per vari motivi:
- essendo prodotte per ridurre il disagio provocato dalle ossessioni, esse vengono rinforzate (e quindi ripetute) grazie al loro effetto ristoratore;
- quando alle compulsioni segue un senso di protezione dalla sofferenza o semplicemente la minaccia temuta non si è verificata, si è convinti che questo è stato reso possibile proprio grazie ad esse;
- durante l’esecuzione delle compulsioni la persona smette di esporsi o si espone di meno alle proprie ossessioni, percependo una diminuzione dell’ansia che queste scatenano.
Il problema permane perché permangono le valutazioni, le interpretazioni negative e angosciose della persona che non ha modo di metterle in discussione, precludendosi la possibilità di aprirsi ad altre prospettive di significato.
Fattori che contribuiscono a mantenere le compulsioni
Le compulsioni vengono attivate quando la persona non ha la certezza che il danno o la minaccia non si verificheranno.
L’intensità e la durata delle compulsioni dipendono dalla probabilità, gravità e rilevanza della minaccia, oltre che dalla responsabilità personale percepite dall’individuo.
Chi soffre di DOC sovrastima la probabilità e la severità del danno e questa distorsione aumenta proporzionalmente alla percezione di responsabilità.
In altre parole, nel DOC si crede che il danno potrà quasi certamente verificarsi e che sarà catastrofico; inoltre, più una persona si sente responsabile del danno medesimo, più aumenta la convinzione che la minaccia si concretizzerà e che dovrà intervenire per scongiurarla.
Spaventata e ansiosa per questa previsione inizia a cercare, in tutti i modi a lei congeniali, la certezza che il danno possa essere evitato. Tuttavia, la minaccia temuta riguarda il futuro e, obiettivamente, non si riesce ad avere la certezza assoluta che quanto temuto non accadrà. Di conseguenza il comportamento di controllo compulsivo non trova fine.
A tutto questo si aggiunge un ulteriore fattore: la scarsa fiducia nella propria memoria e nelle capacità di controllo.
Ovvero, dinanzi alla forte convinzione che il danno può accadere e non riuscendo a trovare il modo di essere sicura che il medesimo danno sarà evitato, la persona con DOC effettua sempre più controlli che, però, non fugano i suoi dubbi, ma alimentano l’idea che qualcosa possa esser stata tralasciata e dimenticata.
L’esito è un aumento dei comportamenti compulsivi di controllo che, a loro volta, indeboliscono ancora la fiducia nella propria memoria e competenza nell’eseguire correttamente le azioni (“ho eseguito proprio bene tutti i controlli e le azioni? Ho tralasciato qualcosa?”).
Come mai è così difficile interrompere le compulsioni
La persona con DOC valuta le sue ossessioni come contenuti molto importanti per i quali sente di dover prendere delle decisioni urgenti e necessarie. Proprio per questo spende molte energie e risorse nel raccogliere prove che dimostrano a se stessa che ha eseguito bene i suoi comportamenti prima di fermarsi.
Il problema relativo all’interruzione delle compulsioni è che questa si basa su criteri di valutazioni interni e soggettivi, ovvero su quella che viene chiamata “not just right experience”.
Ovvero, si continuerà ad effettuare il rituale compulsivo sin quando non si è raggiunta una sensazione soggettiva di soddisfazione, di “just right”, che tutto sia “a posto”. Ma, appunto, si tratta di una “sensazione” e non di una valutazione oggettiva, per cui per la persona risulta difficile fermarsi.
Nei pazienti con DOC si verifica un fallimento nel raggiungere una sensazione di “sazietà” da compulsione, come se non funzionasse il meccanismo fisiologico che stabilisce di non essere più assetati per cui si smette di bere.
Ma perché non si raggiunge questo stato di “sazietà”?
Quando si presenta un’ossessione con il disagio emotivo associato, si attiva la compulsione.
La persona con DOC vuole la certezza che la minaccia temuta non si verifichi e, alla luce di tale scopo, tende a sovrastimare la probabilità della minaccia stessa e la sua severità (“succederà, ma non deve assolutamente accadere, sarebbe una catastrofe!”).
Nel tentativo di fugare ogni dubbio, aumenta i controlli compulsivi ponendo sempre più attenzione ad ogni passo eseguito. Questo processo, però, porta ad indebolire gradualmente la fiducia nella propria memoria (“ho fatto proprio tutto come si deve?”), si alimenta il dubbio, aumenta il senso di responsabilità nel fare le azioni correttamente e la ripetizione delle compulsioni.
Tuttavia, per la persona con DOC è difficile affidarsi ad indicatori esterni di assenza di minaccia (“credo di aver chiuso bene la porta, ma chi mi dice effettivamente che non abbia dimenticato l’ultima mandata?) e si affida ad una sensazione interna.
La sensazione interna di aver fatto tutto correttamente e sufficientemente (“just right”), essendo un indicatore del tutto soggettivo, difficilmente viene raggiunta, ma di contro permane l’esperienza di “not just right” e l’atto compulsivo persiste.
Questa dinamica apre un’importante riflessione, anche sul piano terapeutico: la persona con DOC interromperebbe le compulsioni non perché riduce lo stato di sofferenza provocato dalle ossessioni, ma perché raggiunge la “just right experience”, una sensazione di soddisfazione, di giusto o di certezza che tutto sia stato fatto al meglio.
La riduzione della sofferenza emotiva in termini di minaccia sarebbe, allora, uno scopo secondario nella scala dei suoi obiettivi.
Dott. Spinelli
Riferimenti:
– Salkovskis P., Millar J., Gregory J., Wahl K. (2017). The termination of checking and the role of just right feelings: A study of obsessional checkers compared with anxious and non-clinical controls. Behavioural and Cognitive Psychotherapy, 45, 139-155.
– Purdon C., Chiang B. (2016). Treatment of obsessive-compulsive disorder. In Carr and McNulty (Eds.), The Handbook of Adult Clinical Psychology: An Evidence Based Practice Approach (2nd Ed.) (pp. 492-514). Routledge, Oxford.
– Rachman S. (2002). A cognitive theory of compulsive checking. Behaviour Research and Therapy, 40, 625-639.