L’anxiety sensitivity: importante fattore di rischio del disturbo di panico
27 Dicembre 2018
Vi sono diverse teorie causali sul disturbo di panico.
Alcune di esse si focalizzano sull’identificazione e sulla successiva modificazione delle cognizioni distorte che coinvolgono il processo degli attacchi di panico.
Uno dei modelli esplicativi più noti è quello di David Clark secondo il quale il disturbo di panico si basa su interpretazioni catastrofiche di certe sensazioni corporee associate alle risposte ansiose.
Il prof. Clark sostiene: “un’ampia varietà di stimoli provoca gli attacchi. Questi stimoli possono essere esterni (ad es. un supermercato per un agorafobico), ma spesso sono stimoli interni (sensazioni fisiche, pensieri o immagini che si affacciano nella mente di una persona). Se tali stimoli sono percepiti come una minaccia, emerge uno stato di preoccupazione. Questo stato di preoccupazione è accompagnato da una serie di sensazioni fisiche che, se interpretate in maniera catastrofica, intensificano le preoccupazioni stesse. Esse a loro volta aumentano le sensazioni fisiche creando un circolo vizioso che culmina in un attacco di panico”.
Le sensazioni fisiche, come le palpitazioni o i capogiri, possono aumentare durante attività quotidiane come esercizi fisici, camminare, guidare e possono essere causate anche da stati non correlati all’ansia come ad esempio uno stato di eccitazione, di rabbia o di felicità.
Nel disturbo di panico, la persona distorce cognitivamente queste sensazioni fisiche interpretandole come segno di una minaccia incipiente. Sono queste sensazioni fisiche, anche di basso livello, quelle che Clark definisce “elementi di innesco” che poi entrano a far parte del circolo vizioso del panico.
Quando un attacco di panico è avvenuto, tre fattori giocano un ruolo importante nel mantenimento del problema: a) l’attenzione selettiva sulle sensazioni corporee; b) i comportamenti protettivi; c) l’evitamento.
a) Più si presta attenzione selettivamente ai segnali corporei, più si abbassa la soglia di percezione delle sensazioni comportando un aumento dell’intensità soggettivamente percepita. In tal caso è più facile che si attivi il circolo vizioso di interpretazione catastrofica.
b) Durante un attacco di panico, le persone mettono in atto comportamenti protettivi allo scopo di evitare le conseguenze temute. Supponiamo che una persona interpreti l’affanno come segno di soffocamento. Un comportamento protettivo è rappresentato dal respirare profondamente che, paradossalmente, invece di far superare il disturbo lo mantiene. In che modo? O da un parte trasmette un apparente senso di controllo del proprio respiro che, però, non permette alla persona di disconfermare la sua convinzione negativa (il “posso soffocare”), o dall’altra favorisce l’emergere di sintomi di iperventilazione, come capogiri o aumento della mancanza di respiro, che vanno a peggiorare direttamente i sintomi somatici, rendendo più probabile che la situazione temuta si avveri (“sto davvero male, sto soffocando”).
c) Mediante l’evitamento, la persona fugge dalle situazioni giudicate critiche e viene meno la possibilità di scoprire che le stesse situazioni in realtà non portano alle catastrofi immaginate.
L’anxiety sensitivity
Un altro fattore di rilievo particolarmente elevato nei soggetti panicosi e che riveste molta importanza nella vulnerabilità e nel mantenimento del disturbo di panico, è l’anxiety sensitivity.
L’anxiety sensitivity è quell’attitudine cognitiva che si riferisce alla paura intensa delle sensazioni legate all’attivazione neurovegetativa e nasce dalla credenza che queste sensazioni sono dannose.
L’attivazione neurovegetativa fa riferimento ad un ampia gamma di segni somatici: palpitazioni, parestesia, sudorazione, dispnea o sensazione di soffocamento, sensazione di asfissia, dolore o fastidio al petto, tremori, difficoltà di concentrazione, confusione mentale, derealizzazione.
Queste sensazioni si verificano durante l’attivazione ansiosa, ma possono insorgere anche per altri motivi non correlati all’ansia quali ad esempio malattie fisiche, attività fisica, assunzione di caffeina e alcohol, ecc.
Diversamente dai soggetti con bassa anxiety sensitivity i quali possono interpretare queste sensazioni come fastidiose ma non dannose, i soggetti con un’alta anxiety sensitivity presentano credenze catastrofiche legate all’attivazione neurovegetativa: timore che le palpitazioni possano portare ad un infarto; paura che il senso di confusione mentale e un capogiro siano segni di impazzimento o di perdita di controllo di sé; timore di essere presi in giro a causa di manifestazioni ansiose esterne come tremori o sudorazione.
Diversi fattori interagenti possono concorrere allo sviluppo dell’anxiety sensitivity:
- esperienze che hanno favorito convinzioni negative sulle reazioni ansiose: ad esempio sentire persone che esprimono timore e pericolosità per le sensazioni fisiche; aver assistito ad un arresto cardiaco di una persona amata;
- fattori genetici (anche se hanno un peso minore rispetto all’apprendimento);
- comportamenti genitoriali durante l’infanzia: genitori che rinforzano i “comportamenti da malato” del bambino; alta preoccupazione genitoriale quando il bambino è ansioso; genitori che spesso mettono in guardia il bambino dall’avviare comportamenti che inducono una certa attivazione neurovegetativa (“attento che puoi sudare e puoi ammalarti”, “cambiati subito i vestiti dopo aver giocato a pallone sennò ti viene la febbre”, ecc.); genitori che si mostrano spaventati di fronte alle proprie sensazioni somatiche; genitori che possono sembrare fuori controllo quando sono arrabbiati, favorendo nel bambino la paura di perdita di controllo e di impazzimento, oppure regole genitoriali secondo le quali la confusione è segno di pazzia e di debolezza mentale.
E’ importante precisare che l’anxiety sensitivity non è una causa del disturbo, ma un fattore di rischio per l’insorgenza e il mantenimento dello stesso. Diverse ricerche hanno infatti dimostrato che, se non trattata, essa contribuisce allo sviluppo e al peggioramento dei disturbi ansiosi in generale e del disturbo di panico in particolare.
L’anxiety sensitivity risulta essere un vero e proprio predittore dello sviluppo di disturbi ansiosi ancor più dell’ansia di tratto e della presenza, in anamnesi, di precedenti attacchi di panico. A sostegno di ciò vari studi sperimentali hanno evidenziato che, pur tenendo statisticamente sotto controllo le variabili “ansia di tratto” e “storia di attacchi di panico”, l’anxiety sensitivity permetteva di predire la comparsa di attacchi di panico improvvisi a distanza di tempo.
Alla luce del ponderoso ruolo che tale fattore ricopre nel mantenimento e nell’esacerbazione dei sintomi, nonché nel rischio di ricaduta nella sintomatologia stessa, la valutazione e il trattamento dell’anxiety sensitivity nei soggetti ansiosi (e panicosi nello specifico) dovrebbe costituire un tappa importante del piano psicoterapeutico.
Dott. Spinelli
Riferimenti:
– Clark D.M. (1986). A cognitive model of panic. Behavior Research and Therapy, 24, 461−470.
– Taylor S. (1999). Anxiety sensitivity: Theory, research and treatment of the fear of anxiety. Mahwah, NJ, Erlbaum.
– McNally R.J., Hornig C.D., Hoffman E.C., Han E.M. (1999). Anxiety sensitivity and cognitive biases for threat. Behavior Therapy, 30, 51−61.